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È nell’incontro con il lettore che il libro prende vita.

Francesco Petrarca scrive di non riuscire a saziarsi di libri, perché i libri ci parlano, stabiliscono con noi una “familiarità”. Platone aveva accusato il testo scritto di essere un artificiale contenitore di memoria, incapace di dialogo. Petrarca contribuisce a diffondere la convinzione opposta; i libri sono vivi, perché conservano l’anima degli scrittori. Egli “parla” con Agostino, ne interiorizza le parole. Naturalmente questo metodo non deve condurre a sentire come proprie le parole altrui, che devono essere rielaborate. La biblioteca personale è sempre autobiografica, ed è importante il luogo dove è collocata, lo spazio-tempo in cui ci si rifugia, in cui si tace per parlare con gli “amici”. Qui Petrarca combatte il fantasma doloroso di Laura, qui si colloca volutamente “in esilio”, si estrania dal presente dialogando con i libri dei grandi autori del passato. Essi esistono veramente intorno a lui. Il rapporto che si instaura con le opere degli antichi diventa garanzia di immortalità, coltivata in solitudine. Il tempo della lettura deve essere integralmente libero, immune da tutto. Petrarca lo pretende da sé stesso ma anche dai propri lettori. Le sterminate biblioteche, come quella di Alessandria, possono opprimere perché la memoria non potrà mai acquisirle interamente. Ma per Petrarca anche la biblioteca è cosa viva, che ci compenetra. Egli “accetta la presenza degli autori letti e amati, trae conforto dal fatto che hanno invaso la sua interiorità. La recitazione ad alta voce unifica i diversi apporti, rende presenti i frutti del dialogo, celebra insieme la lettura e la scrittura”.2019-08-28_162616

Lo studio dei grandi testi del passato è un modo per far rivivere gli autori più efficace di ogni immagine, ritratto o statua. La parola rispecchia l’anima dell’autore, il ritratto si ferma alla superficie del volto. Si risale dal testo all’anima dello scrittore non soltanto con l’analisi dello stile ma anche con la grafologia e la fisiognomica. Da Seneca a Goethe, molti esaltano il fascino degli autografi “poiché grandi uomini diventano presenti grazie alla scrittura della loro mano”. L’autografia concorre a realizzare questa “magia” della lettura. Ma se le anime parlano attraverso i libri, permane il desiderio -fin dall’antichità- di collocare ritratti delle biblioteche, anche immaginari, addirittura deliberatamente falsi. Caso emblematico è Omero, del cui vero volto non c’è nessuna traccia eppure è riprodotto in numerose opere. Nel Cinquecento, complice di questa tendenza diventa la fisiognomica, “la tecnica cui si chiedono gli strumenti per tradurre in un ritratto visibile quel ritratto invisibile che i testi ci trasmettono”, la tecnica che ci può aiutare “a trasformare la lettura in un dialogo”. Inevitabile il rimando al culto delle immagini sacre che caratterizza i cristiani. Molto diffusa è l’immagine di san Girolamo -l’autore della Vulgata– intento a scrivere nella solitudine e nel silenzio del suo scriptorium; in un intreccio fra epoca classica e medioevo cristiano la biblioteca “diventa il nuovo eremo, il luogo ideale per lo studio e la meditazione”. Nella mensa della conoscenza “il pane è rappresentato dal libro” (Fumaroli). Nel 1627, nel suo trattato su come realizzare una biblioteca, Gabriel Naudé conferma che “le parole dei testi evocano lo spirito di chi le ha scritte e nello stesso tempo i ritratti ci aiutano, insieme con le biografie degli autori, a costruire nella nostra mente un’immagine che ha valore esemplare, che ci spinge all’imitazione. Per esemplificare Bolzoni sostiene che, oggi, i ritratti di Tullio Pericoli “costituiscono spesso una specie di saggio critico sintetizzato e visualizzato, un’interpretazione visiva in cui la fisionomia dell’autore e la lettura della sua opera si intrecciano”.

Erasmo da Rotterdam crede che la lettura epistolare renda presente l’amico assente. Se il testo comunica la presenza del suo autore, Erasmo raccomanda al popolo di leggere le Scritture, e a questo fine che esse siano tradotte in volgare. “Sono i Vangeli, non i testi dei teologi, non le reliquie né le immagini sacre, che rendono presente il Cristo in mezzo a noi, che ce lo fanno conoscere come fosse un amico, che fanno sì che egli agisca nella nostra vita”. La lettura come alimento della fede.

Machiavelli acquisisce questo rituale in chiave laica e secolare. La “conversazione” con gli autori classici è reale, avviene nella concentrazione del suo studio che diventa un mondo “altro”, e si riversa nelle sue opere (il Principe). C’è un rapporto anche fra lettura e formato dei libri. “I testi di poesia amorosa potevano essere portati con sé, in campagna, dovevano dunque essere di formato piccolo, magari in ottavo, pratici e maneggevoli; i grandi classici con cui si dialoga la sera dovevano essere volumi impegnativi anche nel formato, forse in folio, da leggere e da interrogare appunto nello studio”.