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2019-08-04_185612È opinione comune che la Biblioteca Leopardi, tuttora custodita nel palazzo di famiglia di Recanati, sia stata per Giacomo (1798-1837) una dura prigione e che il padre, il conte Monaldo (1776-1847), ne sia stato l’insensibile carceriere. Non è così; in questo senso vale la pena di affiancare a Giacomo dei libri la lettura di: LEOPARDI Monaldo, Autobiografia, Edizione rivista sull’autografo a cura di Anna Leopardi, Prefazione di Alvaro Valentini, Ancona, il lavoro editoriale, 2012, e CAMPANA Andrea (a cura di), Catalogo della Biblioteca Leopardi in Recanati (1847-1899), Prefazione di Emilio Pasquini, Firenze, Leo S. Olschki, 2011.

Monaldo Leopardi dedicò la vita al Sapere, ad un sapere interdisciplinare, tendenzialmente universale, tuttavia concependolo strettamente come acquisizione non soltanto intellettuale ma anche “fisica”, esigendo cioè di materializzarlo in una biblioteca di sua proprietà, in cui il vecchio conte collocherà, coadiuvato dai figli, migliaia di volumi. Come tuttora si può vedere a Recanati, casa e biblioteca diventano tutt’uno per Monaldo; su questa unione egli fonda l’idea che sia esclusivamente questa biblioteca il luogo e il mezzo per l’educazione e la formazione dei suoi figli. Non servono precettori. Il padre, nelle vesti di bibliotecario, impone ai figli di catalogare rigorosamente il posseduto librario e di segnalare, nel passare del tempo, i volumi che ciascuno volesse acquistare per secondare le proprie materie di interesse. Naturalmente il padre, nelle vesti di unico docente dell’università domestica, aveva prestabilito un piano di studi fondamentale per tutti, compresa Paolina, unica femmina con quattro fratelli: cosa lodevole per un capofamiglia aristocratico di fine Settecento. Ma se hanno accettato l’autosufficienza della biblioteca familiare, se hanno disciplinatamente consolidato la loro formazione, Monaldo consegna ai figli, a cominciare da Giacomo, il ruolo di cobibliotecari, permette (auspica) che abbiano una loro personale adesione a queste stanze particolari che si sono trovati in casa. 

Monaldo non è un personaggio negativo, è un conservatore ma non un reazionario, è orgoglioso di essere un nobile ma crede che esserlo sia una responsabilità più che un privilegio. Poligrafo instancabile, dedito alla storia locale, alla numismatica, all’economia, senza sdegnare la politica, non contesterà la vocazione poetica di Giacomo e non sarà invidioso del suo straordinario successo. Monaldo rispetta la genialità, ma è fiero della propria “quadratura”, cioè del suo sempre praticato buon senso; che tuttavia non gli impedisce di affrontare battaglie: quando rischia la fucilazione per l’avversione all’invasore napoleonico; quando nel 1794chiede a papa Pio VI di inserire nella sua biblioteca i testi condannati dall’ “Index” (ci riuscirà, e anche questi li lascerà leggere a Paolina!). È ovviamente geloso del suo fondo librario, e tuttavia nel 1812 lo apre alla consultazione dei concittadini: iniziativa davvero rara per una nobile casata. Il conte si vanta che la sua è fra le massime biblioteche del territorio, e quindi vuole darle una funzione “pubblica”; ciò significa che Monaldo concepisce la sua missione collezionistica anche come cosa utile alla sua comunità (ma l’iniziativa non troverà risposta nei concittadini). La sua attenzione al sociale non si ferma alla cultura; come Gonfaloniere di Recanati compra dosi sufficienti del vaccino di Jenner contro il vaiolo (Monaldo acquista numerosi testi di medicina) e le distribuisce gratuitamente ai recanatesi, bonifica aree malsane, introduce l’illuminazione notturna e la coltivazione della patata.

Sulla base delle schedine autografe di ciascuna opera, la famiglia continuava a lavorare sull’inventario del posseduto. In morte di Monaldo l’ultimogenito Pierfrancesco riordinò questo materiale e ne trasse un catalogo manoscritto complessivo della biblioteca, perché occorreva spedirlo al Camerlengato del Vaticano per ragioni inerenti all’eredità del conte. Questo manoscritto, tuttora conservato, fu ripreso alla fine dell’Ottocento nel contesto di un rinnovato interesse per Giacomo di cui fu anima Giosuè Carducci. Il catalogo fu stampato nel 1899, come “apografo” cioè copia dell’originale manoscritto. Gli esperti dicono che vi si trovano 7.989 opere per un totale di 12.127 volumi; ma nel suo testamento del 5 novembre 1839 Monaldo dichiara che la sua biblioteca consta di 14.000 volumi. La pubblicazione del 1899, anche se provocò critiche da parte di studiosi e pamphlettisti, fotografava il posseduto della biblioteca alla morte di Monaldo (1847). Si può sostenere che il catalogo del 1899 -riproposto interamente nel citato volume Olschki- sia il formidabile elenco di opere studiate o almeno consultate, superate ma mai rifiutate da Giacomo. Gli antenati Leopardi, a partire dal ‘500, avevano lasciato alcune centinaia di volumi, ma è Monaldo l’unico a rivelarsi affetto da inguaribile patologia bibliofila. Da giovane acquista volumi senza alcun criterio-guida, solo per “possederli”. A fine ‘700 approfitta, suo malgrado, dell’odiato Napoleone che, sopprimendo conventi ordini confraternite, fa riversare una marea di fondi librari nel mercato a prezzi stracciati. Una prima razionalizzazione degli acquisti di Monaldo arriva quando soprattutto Giacomo ma anche gli altri figli cominciano a fare al padre “ordinazioni” su materie di loro interesse; e con ciò il vecchio conte vedeva coronato il sogno di creare una casa-famiglia bibliotecaria. In verità con la Restaurazione del 1815 finisce la pacchia del mercato libero per i collezionisti, che sono costretti a rivolgersi ai grandi librai nazionali e a subire prezzi salati. Anche il conte si riduce a spendere meno, rivolgendosi anche a venditori locali, e a precisare le proprie scelte. Nel 1822 scrive: «cominciai a cercare nei libri un merito intrinseco, ed una sostanziale utilità, e conservando sempre il pensiero di fare una biblioteca, sentii che questa non verrebbe costituita dalla massa cartacea ma dalla scelta giudiziosa delle opere».  Il patrimonio si basa su una dotazione di testi religiosi, ma non mancano illuministi quali Pope, Locke, Montesquieu, Rousseau, Voltaire, Algarotti, Verri, Beccaria. C’è l’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert, e una sezione romantica: Madame de Staël, Goethe, Scott, Byron. E ci sono i testi voluti dai figli, come i testi in greco e quelli in inglese. Monaldo si conferma conservatore non reazionario, sempre animato da vivaci curiosità culturali.

È indubbio che la biblioteca tuttora visibile al primo piano di Casa Leopardi a Recanati, era “la libreria di Monaldo”, non certo di Giacomo. A partire dal 1820 il poeta comincerà a coltivare interessi aldilà dei contenuti rappresentati nella biblioteca e rapporti con il mondo intellettuale esterno, fino alla “fuga” del 1830 dalla quale non tornerà più. Ma è altrettanto certo che Giacomo, fino ai ventitré anni, maturò nella biblioteca paterna una vasta cultura sacra, classica, erudita che sorresse la sua genialità nell’eccellere negli ambienti raffinati di Bologna e di Roma; una cultura “enciclopedica” che il poeta considerò indispensabile ad un vero letterato.

Fabiana Cacciapuoti, curatrice di Giacomo dei libri, sostiene che in Monaldo il desiderio di creare una biblioteca rivela l’esigenza di organizzare il sapere. Il conte ne ha fatto una attività professionale; cura la conservazione dei volumi e l’adeguatezza degli ambienti contenenti gli scaffali; si documenta sulla procedura per concedere prestiti (per i quali stabilisce un regolamento scritto e tiene il relativo registro). Fin dal 1813 Monaldo impegna i figli nella redazione di un “Index Bibliothecae gentis Leopardae” da cui, come detto, si arriverà al catalogo generale. Sull’ordinamento della biblioteca il conte si basa su opere dei teorici francesi fino a soffermarsi, su indicazione di Giacomo, sul “Manuel du libraire et de l’amateur des livres” di J. C. Brunet e sul saggio di biblioteconomia “Della costruzione e del regolamento di una pubblica universale biblioteca” di Leopoldo Della Santa apparso a Firenze nel 1816. Giacomo ha bisogno di perdersi nella ricerca della verità, che infine lo porterà lontano da quelle stanze; ma fino a che vi rimane, collabora con il padre nei rapporti con i librai-editori, e nel lavoro di catalogazione: attraverso la compilazione delle schedine Giacomo “sente” la fisicità del libro prima di immergersi nel contenuto, insomma: agisce da bibliofilo prima che da studioso. Giacomo porta ad un compimento totale e tragico il percorso bibliofilo di cui Monaldo aveva fatto una ragione di vita: imparare ad amare la fisicità dei libri, perseguirne il possesso materiale, curare i contenuti del posseduto sia in rapporto alle materie specifiche sia alla possibilità di amalgamarle; e tutto ciò si prepara con la politica degli acquista ma si attua soltanto attraverso la lettura. Bisogna tentare di leggere tutti i libri della biblioteca, e di farli leggere. La biblioteca familiare è il mondo; Monaldo si rifiuta di viaggiare, vuole che il mondo entri in casa sua sotto forma di libro. Giacomo si immerge pienamente in questo biblioteca-mondo; non potrà che maturare un tormentato desiderio di scappare dalle claustrofobiche stanze di palazzo Leopardi, ma vi ha acquisito quella originale capacità di muoversi dentro una vasta erudizione di cui darà prova nello “Zibaldone” e nelle “Crestomazie”.